SONO TRA NOI

Creature verdi senza cuore e senza cervello, forme di vita che fatichiamo a comprendere e a rispettare: sono le piante i veri alieni.

18 OTT 2021 · Tempo di lettura: min.
SONO TRA NOI

Quando ero piccolo, le nostre mamme dicevano a noi bambini di "non giocare con la terra", ma noi eravamo profondamente convinti che fosse bene giocarci: pur non sapendolo, eravamo degli ecologisti in erba (letteralmente). È dai tre ai sei anni che i bambini sviluppano un interesse per la natura: la psicologia dello sviluppo insegna che si tratta di un passo fondamentale per l'integrità psichica del bambino, che va assecondato, non ostacolato. Dovremmo dire alla natura, semplicemente, "grazie di esserci", ed è quanto basta.

Ciò che si sta affermando nei nostri tempi tormentati, in cui due emergenze, una climatica e una sanitaria, ci sono piombate addosso con veemenza, è la riflessione sul rapporto tra uomo e natura. Forse ciò porterà con sé anche una riflessione sul fatto che le piante, essendo sic et simpliciter esseri viventi, non necessitano di giustificare la loro esistenza come ancillare ai bisogni dell'uomo.

Allora, perché abbiamo l'impellente bisogno di motivare quanto semplicemente è e ci permette di esistere? È ciò che si chiedono Francesca Neonato, Francesco Tomasinelli e Barbara Colaninno nell'eccellente libro "Oro Verde - Quanto vale la natura in città" (Il Verde Editoriale, Milano, 2019). Buona domanda, viene da dire, se per "buona domanda" si intende una domanda a cui non si può dare una buona risposta.

Forse è perché le piante non le comprendiamo. Noi abbiamo organi per lo più localizzati e presenti in un uno o due esemplari, abbiamo cinque sensi, ci spostiamo e proviamo dolore. I vegetali hanno organi diffusi, probabilmente decine di sensi (ma nessuno dei nostri cinque), non possono spostarsi e non vi è prova che sentano dolore: niente nervi, niente cuore, niente cervello. Insomma, le piante sono forme di vita ben più dissimili dal genero umano, e dal regno animale in genere, di quanto lo siano quegli esseri extraterrestri, bizzarri o spaventosi, che popolano i racconti di fantascienza.

Tanto dissimili che facciamo fatica a considerare i vegetali come dei viventi. Non si spiegano altrimenti le capitozzature, i giardini verticali, l'ars topiaria, le illuminazioni notturne delle chiome, i soffocamenti urbani degli apparati radicali, e tutti gli altri interventi totalmente irrispettosi della fisiologia delle piante a cui assistiamo. Non si spiega diversamente nemmeno il motivo per cui parliamo di "manutenzione" (invece che di "cura") di un'aiuola, di una siepe o di un albero, quando nessuno si sognerebbe mai di parlare di "manutenzione" di un gregge, di una mandria o di un cavallo.

Così, per convincere i politici e gli amministratori a promuovere e gestire correttamente gli spazi verdi in generale, e quelli urbani in particolare, bisogna ricorrere alla valutazione dei "servizi ecosistemici", definiti come "i benefici che l'umanità ricava dagli ecosistemi": approvvigionamento di cibo, materiali e sostanze, regolazione del clima, delle acque, della fertilità del terreno e in genere dei processi naturali, sostegno agli habitat e alla biodiversità, apporto di benefici emozionali. Ragionare in termini di servizi ecosistemici è tecnicamente un bel progresso, ma culturalmente uno stallo.

Eppure abbiamo una percezione inconscia, o semplicemente confusa, della vita vegetale come affine alla nostra, che si traduce nel desiderio di contatto con la natura. Per questo tipo di "fascinazione" (attenzione involontaria) ed "empatia asimmetrica" (empatia non condivisa perché percepibile in un solo senso) è stato coniato il neologismo di "biofilia", definita come "innata tendenza a concentrare l'attenzione sulle forme di vita e su tutto ciò che le ricorda e, in alcune circostanze, ad affiliarvisi emotivamente". Il beneficio psicologico che ne deriva è sostanzialmente il quarto dei citati servizi ecosistemici.

L'assenza di contatti precoci con gli elementi naturali si traduce in un'insensibilità, se non addirittura un'avversione, per la natura, cioè una "biofobia". Nelle nostre società contemporanee questo rischio è concreto. L'insegnamento scolastico di per sé non serve a nulla, ed è velleitario insegnare a scuola l'amore per la natura come si insegnano la storia e la geografia. Occorrono invece delle immersioni, esperienze concrete e riti di passaggio. È l'evoluzione dell'emozione biofilica dal livello sensoriale e percettivo al livello cognitivo che genera l'apprendimento e la conoscenza (Rita Trombin, https://blog.inventolab.com/educazione-alla-biofilia/). Poiché sta diminuendo, al succedersi delle generazioni, il nostro legame con la natura, si sta instaurando nella collettività un'amnesia ambientale generazionale: le piante sono tra noi, ma noi non le vediamo.

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